“All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore”. Il cuore, nella Bibbia, è la parte più nascosta a noi stessi, è anche il luogo più difficile da raggiungere, ma è la sede delle nostre scelte, delle nostre decisioni, rappresenta l’unità della persona ed è il centro del nostro essere. C’è un’espressione biblica misteriosa del profeta Geremia che descrive l'inaccessibilità del nostro cuore: Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni. Solo il Signore conosce il nostro cuore, solo lui ne ha accesso.
Si sentirono “toccare il cuore” da Dio: si tratta di un verbo passivo. Nel Vangelo Gesù è quel pastore al quale il guardiano apre. Chi è il guardiano della porta? È il nostro cuore! Siamo noi! C’è in ciascuno di noi un guardiano interiore che deve aprire la porta. Se non apriamo la porta, restiamo ad un livello di vita superficiale: è davvero facile rimanere a metà strada, lasciare Gesù fuori dal nostro cuore, ma questo non può condurre alla conversione.
In caso di maltempo la processione non si svolgerà e la Santa Messa sarà celebrata in chiesa parrocchiale alle ore 18:30.
Il Vangelo ci narra dell’esperienza pasquale di due discepoli che passano dalla lentezza del passo al partire senza indugio, dall’incomprensione all’intelligenza delle Scritture, dall’incapacità di vedere al riconoscerlo, dalla lentezza di cuore ad un cuore ardente. Luca ci sta dicendo che il tempo pasquale è un tempo di trasformazione, di metamorfosi, di cambiamento. La resurrezione di Cristo comporta un movimento che non ci fa rimanere quelli di prima, ma coinvolge la nostra intelligenza, il nostro cuore che è la sede non tanto dei nostri sentimenti, ma il luogo della nostra decisione, i nostri stessi sensi.
“Quelli che erano stati battezzati erano perseveranti…”. “Ogni giorno erano perseveranti…”. Ciò che identifica i cristiani è la comunione, lo stare insieme, in modo particolare la perseveranza. La perseveranza dice una fedeltà che non dipende da noi, ma da uno stato in cui tutti noi ci troviamo: dal fatto di essere tutti battezzati! Il Battesimo è la porta d’ingresso nella comunità cristiana. Spesso però si rimane sulla porta d’ingresso senza entrare nella Chiesa. Questo entrare e rimanere ha il sapore della perseveranza. Senza questa virtù non possiamo formare la Chiesa. Lo stesso Vangelo va in questa direzione; ci da un tempo preciso: il primo giorno della settimana, cioè la domenica e ci da un luogo specifico: il cenacolo. Gesù viene in questo tempo e luogo specifico in cui si riuniscono i discepoli e lì che si lascia incontrare il Signore Risorto.
La sera del Venerdì Santo, alle ore 20:45, si è svolta, nelle parrocchie di Nole e Villanova, la Via Crucis. La commemorazione ha avuto inizio sul sagrato della chiesa parrocchiale di Villanova ed è terminata nella chiesa parrocchiale di Nole con l'ultima stazione e l'adorazione alla Croce.
[...] Noi tutti, entrando nella Chiesa buia, illuminata solo dal Cero e dalle nostre candele, ci siamo rivolti all’oscurità e alle tenebre come ad una beatitudine perché ormai non è più il luogo dell’assenza e della solitudine, ma è diventato il luogo della presenza di Dio. C’è questa paura ancestrale del buio che è antica quanto la comparsa dell’uomo sulla terra, con Cristo questo buio è diventato luce. Il cristiano è colui che avanza nel buio con l’assoluta certezza di essere nella luce.
Questa mensa che celebriamo alla sera ci ricorda il momento della prima eucarestia vissuta da Gesù con i suoi discepoli. Qui non celebriamo un’eucarestia qualsiasi, ma anche noi riviviamo la prima eucarestia, anche noi siamo proiettati in quella sera come se non avessimo mai assistito ad una messa, come se vedessimo per la prima volta l’offerta del pane e del vino che diventeranno il corpo e il sangue di Cristo. Qui siamo tutti neofiti, principianti perché possiamo cogliere il significato autentico del Dono per eccellenza, possiamo tornare a stupirci delle meraviglie che il Signore compie nella nostra vita. Il memoriale che noi celebriamo dice di più di una semplice memoria: oggi diventiamo suoi commensali; Gesù ci fa sedere alla sua stessa mensa, ci tratta da amici, vuole condividere con noi tutta la sua vita. È a tavola che si dicono le cose più importanti della vita, è a tavola che ci si sente davvero a casa.
Il testo della resurrezione di Lazzaro veniva letto nella chiesa antica per i catecumeni che si preparavano al battesimo attraverso il terzo scrutinio. Diventava già un preannuncio della resurrezione di Cristo, lasciava intravedere l’Opera che Dio Padre avrebbe compiuto nel suo Figlio Gesù. Siamo ormai giunti alle soglie della settimana santa che ci prepara più da vicino al mistero della passione, morte e resurrezione. La resurrezione di Lazzaro anticipa quella che sarà il nostro destino futuro che non sarà un semplice ritorno alla vita come molte volte noi sogniamo per i nostri cari defunti. La resurrezione di Gesù ci dice che Dio vuole darci infinitamente di più rispetto a quello che l’uomo può desiderare. Dio non ci da delle cure palliative, dei contentini, dei surrogati di vita ma raggiunge la radice del problema, là dove l’uomo non può compiere nulla, non può fare nulla.
Domenica scorsa il vangelo della tentazioni di Gesù ci faceva sperimentare che la nostra figliolanza per mantenersi tale deve essere messa alla prova attraverso le opere penitenziali. Oggi il vangelo ci fa intravedere il fine, lo scopo di questa figliolanza che è quella della trasfigurazione, della metamorfosi della nostra vita. Il Vangelo ci vuole portare a comprendere che la nostra vita non rimane sempre la stessa, che avrà un mutamento radicale ad opera di Dio e non per opera nostra. L’esperienza di Abramo è un’esperienza di trasfigurazione, dove è chiamato a lasciare la sua patria, la sua terra. Al momento della chiamata la Bibbia ci dice che Abramo camminava già verso la terra di Canaan insieme a suo padre e a suo fratello. Egli partirà senza padre e senza fratello – entrambi appena morti – e con una moglie, Sara, sterile. In questo contesto di morte e di sterilità, la voce di Dio che gli ordina di andarsene sembra beffarda e ingannevole. Eppure Dio gli dice di continuare il suo cammino nonostante le apparenze di morte. Dio fa così con ciascuno di noi: solo nel momento in cui noi ci sentiamo insicuri, inermi, senza certezze, con un passato che ci pesa sulle spalle, provenienti da un lutto che possiamo ascoltare la voce di Dio che c’invita a camminare e partire. L’imperativo “vattene” indica proprio questa necessita ci cambiare i suoi orizzonti, le sue vedute: “Va’ verso te stesso”. Oggi si tende a cambiare il nostro aspetto esteriore, a trasformare a volte la nostra identità, a seguire le mode del momento perché di natura nostra noi siamo portati a trasformarci, ma tutto questo è opera nostra, opera dell’uomo. Questa trasfigurazione avviene già adesso nel momento in cui noi lasciamo agire Dio, gli lasciamo l’iniziativa. È una trasfigurazione che non avviene all’esterno, ma nel nostro interno. Gesù rivela esteriormente la sua gloria nascosta dentro di sé, la sua identità divina.
L’inizio di quaresima ci pone sempre molti interrogativi. Non sappiamo mai da dove iniziare per vivere questo tempo che la Chiesa ci offre. La sensazione è un po’ quella di chi inizia un percorso senza saperne la meta, senza sapere che cosa bisogna fare: abbiamo poche idee, ma molto confuse. Sentiamo parlare di conversione, ma da che cosa mi devo convertire? Sentiamo parlare di rinunce, ma per noi queste coincidono con l’eliminare il cioccolatino, il caffè, la sigaretta aspettando che tutto si concluda per ricominciare da capo. Che cosa comporta la quaresima? La quaresima è la ricerca di noi stessi, della nostra identità che è tentata continuamente di essere altro. Noi, fondamentalmente, siamo degli alienati, cioè pensiamo che la felicità sia sempre fuori di noi e che non risieda già nella nostra umanità. Nella prima lettura Eva è tentata di non essere più Eva. S’insinua il dubbio che quello che siamo non ci basta, che quello che Dio ci ha messo a disposizione sia troppo poco, nonostante avesse detto ad Eva che poteva mangiare di tutti gli alberi del giardino tranne uno. La tentazione è quella di “essere come Dio”: ecco l’insoddisfazione. Tutto nasce da una menzogna, da una distorsione della realtà, da una promessa di bene non mantenuta. È la pretesa dell’uomo di essere altro da sé. Invece di cercare di rimanere Eva, ella vuole proiettarsi in una realtà parallela che non esiste, che è illusoria. Quante volte pensiamo che quello che abbiamo non ci basta, che la felicità può essere pesata a chili.
Con il mercoledì delle Ceneri inizia il grande tempo quaresimale: “un tempo di ascolto della parola di Dio e di conversione, di preparazione e memoria del battesimo, di riconciliazione con Dio e con i fratelli, di ricorso più frequente alle armi della penitenza cristiana: la preghiera, il digiuno, l’elemosina”.
Nella pastorale parrocchiale, secondo la tradizione pedagogica e catechistica presente nel nostro paese, assistiamo spesso ad un invito centrato soprattutto sul digiuno, inteso come rinuncia. La Quaresima, nell’immaginario collettivo, è il tempo delle rinunce piccole e grandi, dei sacrifici e delle privazioni che potranno condurci a preparare più degnamente il cuore alla Pasqua. Non di rado, è possibile però scadere nel volontarismo e fare delle nostre forme di ascesi una sorta di prova di forza che ci porta, poi, a recuperare velocemente e non senza eccessi, ciò di cui ci siamo privati lungo la Quaresima. Questo tempo diventa allora propizio per fare più attenzione alla salute o al peso, riducendo o eliminando dolci, fumo, alcool e cose simili.
È utile guardare al passo evangelico che, ogni anno, il mercoledì delle Ceneri apre il nostro cammino. Le opere quaresimali ivi descritte sono tre: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Esse sono talmente correlate fra loro che non è possibile praticarne una isolatamente dalle altre. Ciò spiega anche perché le nostre rinunce quaresimali, anche quando vengono portate sino alla fine e non abbandonate lungo la strada, non producono mai un vero avvicinamento a Dio. In fondo, è sempre qualcosa che gestiamo noi senza davvero consegnarci al Padre. Invece, digiuno, preghiera e carità fraterna costituiscono un rinnovamento globale della vita, mosso dalla Parola e sostenuto da essa. L’uomo infatti è la somma delle proprie relazioni. Per quanto possiamo essere preoccupati di stare bene con noi stessi, ciò è impossibile se il nostro rapporto con Dio, con i fratelli e con il creato è segnato dal male. La Quaresima è invece il tempo in cui, sotto i soli occhi del Padre, liberi da esibizionismo e narcisismo (Mt 6,4.6.18) l’uomo può ritrovarsi come creatura attraverso il digiuno, come figlio, attraverso la preghiera e come fratello, attraverso la carità. Il testo di Mt 6 riporta al centro proprio l’assoluto del rapporto con Dio, unico caso serio della nostra esistenza. Tutto nasce da lì e viene a distorcersi quando anche la religione diviene strumento per vincere il senso di inadeguatezza, di nudità che ci portiamo dietro a causa del peccato.
La liturgia della Parola ci presenta in questa domenica il tema della memoria. Una delle nostre più grandi paure è quella di sentirci abbandonati, dimenticati. La più grande tragedia che ci possa capitare è quella di venire al mondo senza che nessuno ci abbia desiderati. Se non sappiamo da dove veniamo facciamo anche fatica a capire dove dobbiamo andare. La prima lettura ci dice che anche se ci fosse una mamma che si dimenticasse del proprio figlio, Dio non si dimenticherebbe mai.
Il discorso della Montagna che continuiamo ad ascoltare anche in questa domenica assume dei contorni davvero radicali: il non covare dentro di sé l’odio per il fratello, la correzione fraterna, l’amore non solo per il fratello ma anche per il nemico. Fin quando si tratta di correzione, di non trattenere l’odio o il rancore, di amare il prossimo come se stesso, di dare in prestito possiamo ragionevolmente accettarlo; ma quando sentiamo parole come porgere l’altra guancia, lasciarsi strappare non solo la tunica, ma anche il mantello; costringere qualcuno a fare un miglio in più; l’imperativo: “amate i vostri nemici”; un Dio che fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, ci pare davvero urtante e insopportabile anche al solo pensiero.
Nel Vangelo di domenica scorsa Gesù ci ha invitati ad essere sale della terra e luce del mondo. Nessuno può vivere per se stesso ma ognuno di noi ha un compito e una missione per gli altri: il sale per dare sapore, spessore alla vita e la luce per portare la verità del Vangelo. “Davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male” ci dice il Siracide. Non ci sono altre vie percorribili o si intraprende la strada del bene o quella del male, non ci sono strade neutre per le quali possiamo “sopravvivere” o “vivacchiare” perché sopravvivere equivale ad intraprendere la strada del male. Chi si mette nell’atteggiamento di difendere la sua vita contro una vita ostile nei suoi confronti non potrà conoscere la vera sapienza. Poche persone conoscono la Sapienza del Vangelo perché la vita non è nient’altro che una continua difesa dei propri diritti, di ciò che si possiede, di una vita senza fastidi, senza intrusi e senza imprevisti.
Dopo il grande scenario della proclamazione delle beatitudini come una sorta di prologo Matteo continua il discorso della Montagna approfondendo le esigenze della nuova Legge che ci è stata donata. Abbiamo dato un’occhiata all’indice per farci venire la curiosità, ora occorre leggere il contenuto di queste beatitudini e lo fa con due sentenze lapidarie, brevi ma intense: “voi siete il sale della terra”; “voi siete la luce del mondo”. Il sale è quell’elemento che se non c’è ce ne accorgiamo subito: tanto è vero che diciamo subito “manca il sale”; oppure ce ne accorgiamo fin troppo: “c’è troppo sale”. Il sale non è necessario che si veda, ma che si senta. Così è la nostra vita: non è necessario che si veda, che cioè abbiamo l’etichetta di appartenenza ad una categoria, ma che si senta che abbiamo sapore, consistenza, gusto. Come il sale non serve per se stesso ma è utile se messo insieme ad altro così anche la nostra vita non serve per noi stessi ma serve per gli altri: è assurdo che il sale perda la sua consistenza (“se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?”) come è assurda una vita conservata per sé.