Omelia di S.E.R. mons. Alessandro Giraudo, Vescovo ausiliare di Torino, alla Messa nella solennità di San Vito martire presso il Santuario di San Vito a Nole.
Omelia di S.E.R. mons. Alessandro Giraudo, Vescovo ausiliare di Torino, alla Messa nella solennità di San Vito martire presso il Santuario di San Vito a Nole.
Dopo l’arresto di Giovanni, Gesù sembra continuare l’annuncio che caratterizzava il Battista: quello dalla conversione. Giovanni in tutta la sua attività pubblica non ha fatto altro che annunciare e amministrare un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Gesù sembra continuare il ministero del Battista, ma si distanzia quando afferma che il Regno dei Cieli è vicino. Un messaggio oserei dire provocatorio e scandaloso perché appare chiaramente la contraddizione di un Dio che dice di essere vicino ma che lascia il battista in prigione. Come fa Dio a pretendere di essere vicino quando non è in grado di rendere ragione alla giustizia, quando non è in grado di liberare i suoi amici che l’hanno fedelmente servito?
La prima lettura e il Vangelo ci presentano due figure: Eli e Giovanni Battista. Essi diventano gli uomini intermediari tra Dio e la storia di Samuele e dei due discepoli. Penso che il tema che leghi queste due letture sia da ricercare nella paternità spirituale, nell’accompagnamento spirituale. L’anziano sacerdote Eli guida il giovane Samuele a discernere la voce di Dio, mentre Giovanni indica Gesù come l’agnello di Dio. Per comprendere la volontà di Dio, se davvero vogliamo fare un cammino di discepolato, abbiamo bisogno di mediatori umani, di maestri, di testimoni; in una parola: di padri e madri che ci generano alla vita di Dio. La fede non si trasmette per via intellettuale come una forma di sapere, ma si trasmette attraverso un’esperienza, una condivisione di vita, una comunione di cuori. Lo scenario del tempo di oggi sicuramente non ci aiuta in questa ricerca.
La prima lettura che c’introduce nella comprensione delle Letture, ci narra di un Dio che prenderà lui stesso il compito del pastore, che condurrà e passerà in rassegna il suo gregge, si prenderà cura della malata e della forte, ma su ciascuna di esse pende un giudizio. Anche nel Vangelo la sintesi che salta all’occhio è quella del giudizio. Il giudizio, c’è poco altro a cui pensare, è il centro della fede cristiana. Tutti i grandi artisti dei tempi passati si sono cimentati nella realizzazione del “giudizio finale” che ci porta ad alimentare due sentimenti contrastanti: la gioia di coloro che ricevono la salvezza, ma anche il turbamento per coloro che sono avviati verso gl’inferi. Si realizza una spaccatura netta dell’umanità: finalmente si rivelano chi sono gli operatori d’iniquità e dall’altra gli operatori di misericordia. Ma è così che Dio giudica? Ci sono delle parole di San Giacomo che ci possono aiutare nella nostra meditazione: “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio”. Penso d’interpretare così queste parole: ci sono due modi nei quali Dio giudica o meglio nei quali lasciamo Dio giudicare. Il primo è il giudizio senza misericordia nel quale Dio soppesa le opere buone da quelle cattive: l’immagine è quella della bilancia. Il secondo, quello che Dio preferisce, è quello della misericordia. Questo giudizio misericordioso è incomparabilmente superiore al solo giudizio. Dio non vuole usare solo la giustizia ma anche la misericordia. Questo tipo di giudizio misericordioso avviene quando non c’impossessiamo del giudizio che appartiene solo a Dio. Noi pensiamo che ci competa più il giudizio che non la misericordia, in realtà con il Vangelo le cose si rovesciano: ciò che deve essere proprio dell’uomo non è il giudizio, ma solo la misericordia.
Il libro dei proverbi fa un elogio della “donna perfetta” nell’ambiente familiare, ma si può dire di qualsiasi persona che ha scoperto la sapienza della vita. Al cuore di questo ritratto della donna forte c’è la responsabilità che si traduce in affidabilità, laboriosità, vigilanza e generosità. La responsabilità cristiana significa essere coscienti del dono ricevuto della vita e saper essere fedeli.
Il tema della Sapienza è centrale nelle letture di questa domenica; in modo particolare nel Vangelo, nel quale si parla di cinque ragazze sagge e, in loro contrapposizione, di cinque ragazze stolte, “stupide”. Ma che cos’è la Sapienza, che cosa significa essere stolti? Prima di tutto è la ricerca stessa della Sapienza che ci rende sapienti. La Sapienza è un desiderio. La Sapienza, per noi cristiani, è una persona che si è fatta carne, quindi la vera Sapienza è il desiderio di Cristo. Chi si mette in ricerca sincera di Cristo è come se l’avesse già trovato e incontrato. La vera saggezza ci dice che la fede non può e non deve essere improvvisata, ma va preparata e curata così come nel Vangelo le ragazze sagge si premuniscono di altro olio.
Probabilmente questa è l’unica omelia che noi sacerdoti non dovremmo fare, ma che dovreste fare voi laici nei nostri confronti per il fatto che si parla dei sacerdoti. È il dilemma del fare che Gesù ci presenta: “dicono, ma non fanno”. Gesù dice che l’insegnamento è degno di essere ascoltato sempre, ma questo insegnamento se non coincide con un fare a lungo andare giudica e condanna la persona che lo insegna. Il mio padre spirituale mi disse una volta che un buon parroco dovrebbe essere in grado di: fare, dar da fare, saper fare, lasciar fare; ma ad una condizione: che questo fare corrisponda ad un essere.
È bello poter celebrare la solennità di Ognissanti in questo luogo dove abbiamo i nostri cari defunti. Oggi qui si respira il profumo dei fiori freschi che ci richiama il profumo della santità. È il luogo più idoneo dove noi sperimentiamo la “comunione dei santi”: la Chiesa pellegrina su questa terra insieme alla Chiesa del Cielo con i nostri cari defunti. Questo è un luogo di santità e di santificazione perché qui, tra i nostri cari, ci sono dei santi, ma ci sono anche coloro che stanno compiendo il cammino di purificazione per arrivare alla piena maturità. Noi siamo qui per loro, per aiutarli, ma anche loro ci aiutano a recuperare quella nostalgia della santità, del bello e del vero: il nostro anelito di Dio e del Paradiso. Il cimitero non è altro che l’anticamera del Paradiso, dove iniziamo a sperimentare la solidarietà tra di noi, dove veniamo radunati non per necessità, ma per affetto, per compassione.
«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?»
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»
Il verbo amare è il verbo più bello del mondo. È quella realtà che tutti conosciamo ma a cui non siamo in grado di dare una definizione o, meglio, a cui ognuno di noi ne darebbe una diversa dall’altra. Spesso usiamo la parola “amore” come sostantivo e non come verbo: si sente spesso parlare di amore (ad esempio nella triade: lavoro, fortuna, amore), ma si sente poco la forma verbale di amare e non ci capita mai di sentire la forma futura: “amerai”.
Oggi, come anche domenica scorsa, ci viene mostrata l’immagine della vigna. La vigna è il simbolo privilegiato per descrivere il rapporto tra Dio e il suo Popolo. Nel salmo che abbiamo pregato Dio sradica addirittura la sua vigna dall’Egitto per trapiantarla in una terra dove possa fruttificare. Che cosa ci dice questa immagine, questa metafora della vigna? Ci dice un fare, un affaticarsi, un Dio che si prende cura del suo popolo. Dio è sempre all’opera: è un lavoratore che esprime il suo amore. L’amore è un lavoro, una fatica. Noi contemporanei purtroppo abbiamo ridotto l’amore semplicemente ad un “riposo”, ad un vago o “svago” sentimento che ci fa star bene con noi stessi e con gli altri, un amore che in realtà non costruisce nulla, che non forgia la nostra personalità, il nostro carattere.
La parabola che abbiamo ascoltato oggi nel Vangelo (Mt 21,28-32) è la prima di una serie di parabole dette “di rottura” perché Gesù le pronuncia contro i capi dei giudei, i notabili del tempio, gli scribi e i farisei. In questa prima parabola il figlio che dice subito di sì, ma poi non va a lavorare nella vigna, rappresenta un’intera categoria di persone profondamente religiose che si ritengono dalla parte di Dio, ma in realtà sono incapaci di misericordia con i peccatori perché considerati gente maledetta. I pubblicani e le prostitute sono invece coloro che hanno detto di no a Dio, ma sono poi subito pronti ad accogliere l’invito alla conversione del Battista.
Il tema della correzione e dell’ammonizione del fratello è un tema al quale spesso non pensiamo mai perché è un tema difficile da concretizzare nella nostra vita e soprattutto perché insorgono paure e timori. Non solo chi ha responsabilità dirette su altre persone in particolare, ma la liturgia della Parola ci dice che tutti siamo responsabili degli altri. Non si tratta di avere un coraggio sopra la media, ma la correzione richiede un profondo senso di fede. La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti nel peccato in quanto tale e non solo in quanto il male coinvolge la mia persona. Essa si oppone a quel silenzio complice che non vuole fastidi o crearsi inimicizie; è dettata da false autogiustificazioni: “è una questione che non mi riguarda”; “chi si fa gli affari suoi campa cent’anni”. Siamo subito pronti a trovare mille motivi per non denunciare il male. In fondo c’è sempre quella sottile presunzione che la salvezza riguardi l’individualità.
Il profeta Geremia è in piena crisi di fede. Quel Dio che lo conosceva fin dal “grembo materno” sembra che non lo conosca così bene; che lo abbia creato per abbandonarlo a se stesso, che lo abbia lasciato in balìa dei suoi avversari che non hanno pietà. Lui è “obbligato” dalla Parola di Dio a gridare: “violenza e oppressione”, cioè a manifestare al Popolo la sua ingiustizia, la sua perversità, mentre avrebbe un grande desiderio di dire: “state tranquilli, mi ero sbagliato”. È sul punto di abbandonare tutto: “non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome”. Si ricorda dei bei momenti di quando sentiva una forte passione e attrazione per Dio: “Mi hai sedotto, Signore e io mi sono lasciato sedurre”. Ma ormai quella frase ha un sapore ironico: “mi hai sedotto, Signore e io ci sono cascato!”. A un certo punto della vita si pone nel profeta questa domanda: era vera vocazione? O si trattava di un abbaglio, di un inganno? La fede è sicuramente gioia, ma ancor di più scandalo; è la gioia di riconoscere Gesù come il Cristo, il figlio del Dio vivente, ma è anche lo scandalo della croce che Gesù rivela a Pietro con un rimprovero.
Il profeta Zaccaria ci presenta un re ideale che entra in Gerusalemme con un atteggiamento diverso dai re di tutta la terra. I re entravano trionfanti nelle città conquistate ostentando i bottini di guerra, gli schiavi, i tesori depredati mentre questo re entra in modo umile attraverso una cavalcatura umile di un’asina, porta la pace non con la forza, il sopruso e la paura ma con la mitezza e l’umiltà. Il profeta ci preannuncia il futuro re davidico che non sarà come gli altri. Questa profezia si è realizzata con la venuta di Gesù che ci rivela l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’umanità. Dio viene a noi nell’umiltà e porta la sua pace, la sua salvezza attraverso la non violenza. Gli uomini pretendono di portare la pace attraverso degli atti di forza e di prevaricazione. Viviamo nella logica mondana quando facciamo prevalere l’imposizione di questa pace che non potrà mai essere duratura, ma che si fonda sulla paura e sulla mancanza di dialogo. Oggi chi fa la voce grossa, chi urla, chi sfoga la sua ira anche se nella giustizia non potrà mai portare quella pace che Gesù ci propone. Potremmo vincere la battaglia ma aver perso la relazione con il fratello perché la vera pace non si basa su chi ha ragione ma sulla relazione stabile e duratura.
La fede è una lotta contro la paura; contro la paura degli uomini che possono condizionare la nostra scelta cristiana. La fede esige coraggio per dare una testimonianza chiara di vita cristiana. Non esiste una fede intima, ma esiste una fede annunciata, condivisa. La paura è la grande nemica della fede e nessuno di noi è immune da questa malattia: chi più, chi meno e penso che nelle diverse situazioni della vita ce ne accorgiamo. Una paura è quella sicuramente del rispetto umano quando pensiamo che la fede sia ciò che deve nascere spontaneamente senza condizionamenti esterni.
“Come può costui darci la sua carne da mangiare?” La domanda lecita e incredula dei Giudei diventa la domanda di ogni cristiano, la domanda per comprendere sempre più in profondità il mistero dell’eucarestia. Si tratta del primo annuncio eucaristico di Gesù e già la gente mormora e protesta come il Popolo d’Israele nel deserto che non credeva al Dio vicino, presente e operante: “Il Signore è presente in mezzo a noi, sì o no?”. In fin dei conti quello che non accettano i Giudei è proprio un Dio vicino, ma che risulta debole, che si lascia “mangiare” dagli uomini. Del resto anche l’antico Popolo non accettava un Dio vicino che però non interveniva tutte le volte: in loro nacque il dubbio se Dio fosse in mezzo a loro oppure no. Quello che vorrebbero è invece un Dio grande e lontano. Nell’eucaristia Dio si presenta come il Dio in mezzo a noi nella sua massima espressione, ma che appare debole perché si presenta nelle specie umili del pane e del vino.
La prima lettura è il racconto del rinnovamento dell’alleanza distrutta dalla disobbedienza del Popolo con l’episodio del vitello d’oro. Il Popolo non tardò a rappresentarsi Dio sotto le sembianze di un toro, o meglio di un giovenco. Infatti non si trattò subito di idolatria, ma di rappresentarsi il Dio che li aveva fatti uscire dall’Egitto con forza e potenza. Se davvero aveva rivelato il suo nome a Mosè nel roveto ardente: “Io sono colui che sono” cioè colui che è presente, il Dio vicino, non poteva rimanere nascosto, non essere reso “visibile”.
Il mistero dell’incarnazione del Dio-con-noi, dell’Emmanuele, si realizza ora pienamente con la sua ascensione: “Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Matteo realizza questa grande inclusione del suo Vangelo. L’ascensione indica il passaggio definitivo alla gloria, il passaggio all’eternità. Ma che cosa rappresenta l’ascensione? Si tratta di un abbandono? Si tratta di una partenza? In effetti Matteo non ci lascia mancare un breve annotazione che ci fa pensare proprio a questa eventualità: “Essi però dubitarono”. Qual è il dubbio che si cela nel cuore dei discepoli? Proprio la paura che si tratti di un abbandono, di una partenza; o peggio che le apparizioni siano state una bella svista collettiva, che in fin dei conti Gesù non sia mai risorto. È il dubbio atroce che Dio non sia capace a rimanere con l’uomo per sempre. Non è anche il nostro dubbio? La nostra incertezza?
“All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore”. Il cuore, nella Bibbia, è la parte più nascosta a noi stessi, è anche il luogo più difficile da raggiungere, ma è la sede delle nostre scelte, delle nostre decisioni, rappresenta l’unità della persona ed è il centro del nostro essere. C’è un’espressione biblica misteriosa del profeta Geremia che descrive l'inaccessibilità del nostro cuore: Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni. Solo il Signore conosce il nostro cuore, solo lui ne ha accesso.
Si sentirono “toccare il cuore” da Dio: si tratta di un verbo passivo. Nel Vangelo Gesù è quel pastore al quale il guardiano apre. Chi è il guardiano della porta? È il nostro cuore! Siamo noi! C’è in ciascuno di noi un guardiano interiore che deve aprire la porta. Se non apriamo la porta, restiamo ad un livello di vita superficiale: è davvero facile rimanere a metà strada, lasciare Gesù fuori dal nostro cuore, ma questo non può condurre alla conversione.
Il Vangelo ci narra dell’esperienza pasquale di due discepoli che passano dalla lentezza del passo al partire senza indugio, dall’incomprensione all’intelligenza delle Scritture, dall’incapacità di vedere al riconoscerlo, dalla lentezza di cuore ad un cuore ardente. Luca ci sta dicendo che il tempo pasquale è un tempo di trasformazione, di metamorfosi, di cambiamento. La resurrezione di Cristo comporta un movimento che non ci fa rimanere quelli di prima, ma coinvolge la nostra intelligenza, il nostro cuore che è la sede non tanto dei nostri sentimenti, ma il luogo della nostra decisione, i nostri stessi sensi.