Domenica scorsa il vangelo della tentazioni di Gesù ci faceva sperimentare che la nostra figliolanza per mantenersi tale deve essere messa alla prova attraverso le opere penitenziali. Oggi il vangelo ci fa intravedere il fine, lo scopo di questa figliolanza che è quella della trasfigurazione, della metamorfosi della nostra vita. Il Vangelo ci vuole portare a comprendere che la nostra vita non rimane sempre la stessa, che avrà un mutamento radicale ad opera di Dio e non per opera nostra. L’esperienza di Abramo è un’esperienza di trasfigurazione, dove è chiamato a lasciare la sua patria, la sua terra. Al momento della chiamata la Bibbia ci dice che Abramo camminava già verso la terra di Canaan insieme a suo padre e a suo fratello. Egli partirà senza padre e senza fratello – entrambi appena morti – e con una moglie, Sara, sterile. In questo contesto di morte e di sterilità, la voce di Dio che gli ordina di andarsene sembra beffarda e ingannevole. Eppure Dio gli dice di continuare il suo cammino nonostante le apparenze di morte. Dio fa così con ciascuno di noi: solo nel momento in cui noi ci sentiamo insicuri, inermi, senza certezze, con un passato che ci pesa sulle spalle, provenienti da un lutto che possiamo ascoltare la voce di Dio che c’invita a camminare e partire. L’imperativo “vattene” indica proprio questa necessita ci cambiare i suoi orizzonti, le sue vedute: “Va’ verso te stesso”. Oggi si tende a cambiare il nostro aspetto esteriore, a trasformare a volte la nostra identità, a seguire le mode del momento perché di natura nostra noi siamo portati a trasformarci, ma tutto questo è opera nostra, opera dell’uomo. Questa trasfigurazione avviene già adesso nel momento in cui noi lasciamo agire Dio, gli lasciamo l’iniziativa. È una trasfigurazione che non avviene all’esterno, ma nel nostro interno. Gesù rivela esteriormente la sua gloria nascosta dentro di sé, la sua identità divina. Ognuno di noi ha delle qualità umane, delle bellezze nascoste dentro di sé che hanno bisogno di essere liberate, di essere manifestate. Il luogo della nostra trasfigurazione, il monte di Dio è l’eucarestia, l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, le relazioni con le persone. La vita non è altro che la manifestazione piena della nostra umanità che verrà innalzata a dignità divina. Anche il dolore e la sofferenza sono luoghi di metamorfosi. Non si può crescere, maturare senza la sofferenza; non si può arrivare alla gloria senza l’ombra della croce. Sarebbe bello poter rimanere sempre sul monte, gustare la bellezza di Dio come per Pietro, Giacomo e Giovanni; questa bellezza non è ancora quella definitiva della resurrezione: è solo un’anticipazione, così come la liturgia, l’eucarestia non è ancora la bellezza definitiva ma ne è un’anticipazione. In questi mesi ho frequentato in modo assiduo le stanze dell’ospedale di Lanzo, soprattutto in quel famigerato reparto chiamato hospice, all’ultimo piano in fondo a destra, comunemente denominato come l’anticamera della morte. In questi mesi ho imparato a varcare la soglia di quel reparto. Per me è diventata l’anticamera del Paradiso, un luogo di trasfigurazione della nostra vita non solo per chi è malato ma anche per chi assiste i malati. Un luogo dove non si respira l’odore della morte, ma il profumo dell’amore. Chi entra e chi esce da quel luogo vivo o morto che sia non può uscire senza che sia avvenuto un processo di trasformazione. È un luogo dove credenti e non credenti parlano un unico linguaggio, si comprendono e si accolgono.