Siamo nella domenica della gioia perché il vangelo di oggi ci spiega di quale gioia si tratta, della gioia evangelica che è diversa da quella che ci propone il mondo. Il Vangelo ci narra dell’esperienza di prigionia del Battista. Sembrerebbe in questa situazione che non ci sia nessun presupposto per gioire. Chi di noi potrebbe gioire in un contesto di prigioni e quindi di sofferenza? La prigione per Giovanni rappresenta il completamento della sua missione che preannuncia anche quella di Gesù: prima di essere ucciso come il Battista Gesù sarà messo in prigione. Il Battista con questa domanda che affida ai suoi discepoli che diventano suoi portavoce, vuole trovare una connessione, una continuità tra la sua predicazione e quella di Gesù. C’è una evidente discontinuità. Giovanni pensava che Gesù dovesse completare la sua Opera di giudizio definitivo, ma nulla sembra far presagire questo, né tanto meno la pronta liberazione. Questa esperienza del Battista è anche la nostra esperienza. Noi sentiamo forte l’esigenza in noi di possedere la realtà, pensiamo che dobbiamo essere noi a dare delle risposte alla nostra vita e a quella degli altri. Abbiamo forse un’immagine che ci costruiamo di Dio a nostra misura. Giovanni si era costruito un suo schema che funzionava fino a quando è giunto Gesù che gli ha “scombinato” tutte le carte in tavola. Dobbiamo lasciarci interrogare dalle cose della vita; dobbiamo abbandonare i nostri schemi per accogliere Gesù. Quante volte Dio interviene in qualche cosa della nostra vita che noi avevamo scartato e che non rientrava nei nostri progetti e nelle nostre aspettative, totalmente estranee al nostro modo di agire e di pensare? Ecco qui dove sta la c’è la vera gioia: il vangelo non è un opera di esigenza, che ci fa mettere tutti in riga, che premia i buoni e punisce i colpevoli, ma è un opera di guarigione e di trasformazione; prende l’uomo nella sua incompiutezza così com’è: “I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, e ai poveri è annunciato il Vangelo”. Noi di fronte ai problemi della vita, alle sfide che essa ci mette di fronte abbiamo già delle soluzioni in testa e se non raggiungiamo quell’obiettivo abbiamo perso la nostra sfida e cadiamo dell’angoscia e nella tristezza. Se non cambia quella situazione è impossibile arrivare ad essere pienamente felici, soddisfatti e gioiosi come se tutto dipendesse da delle variabili esterne. Non è la situazione che deve cambiare, ma sono io che devo guarire. Anche se superassi un problema ce ne sarebbero altri cento che mi metterebbero sempre in continua tensione perdendo la pace e la serenità: noi saremo sino alla fine creature incompiute che cercano la loro complementarità solo in Dio. Non esiste un tempo sbagliato, non esiste un luogo sbagliato al momento sbagliato, ma un atteggiamento sbagliato davanti al tempo che mi è concesso.

C’è però anche una domanda di Gesù: “che cosa siete andati a vedere nel deserto?”. Non una canna sbattuta dal vento, cioè un uomo che si lascia abbindolare da qualsiasi moda passeggera, né un uomo vestito con abiti di lusso che si lascia attirare dalla superficialità, dall’apparenza. La nostra umanità è attratta da persone integre, radicali, profetiche che siano in grado di guidare la nostra esistenza perché sono quelle ci danno vita, fiducia e speranza. Da chi io sono attratto, quali persone seguo che sono in grado di comunicarmi vita, gioia, calore?

“Quando noi siamo nel buio, nelle difficoltà non viene il sorriso, ed è proprio la speranza che c’insegna a sorridere per trovare quella strada che conduce a Dio. Una delle prime cose che accadono alle persone che si staccano da Dio è che sono persone senza sorriso. Forse sono capaci di fare una grande risata, ne fanno una dietro l’altra, una battuta, una risata… ma manca il sorriso! Il sorriso lo da soltanto la speranza: è il sorriso della speranza di trovare Dio”

Udienza generale di Papa Francesco - 7 dicembre 2016