In quest’ultima domenica del tempo ordinario si conclude il grande Giubileo della Misericordia con la chiusura della Porta Santa. Il Vangelo e la liturgia odierna accompagnamo questo rito e l’icona del Vangelo svela il senso di quello che abbiamo vissuto. Sicuramente molti ne hanno approfittato per sperimentare più da vicino la misericordia del Padre e questi hanno portato frutti di vita eterna, altri si sono lasciati sfuggire questa esperienza e non si sono lasciati raggiungere dalla misericordia di Dio, come il Popolo che “stava a vedere”, oppure di coloro che hanno rifiutato di accogliere questo Dono di grazia. Il Giubileo è anche questo: il mistero del rifiuto della misericordia di Dio. Nel vangelo si alterna questo rifiuto di riconoscere in Gesù il messia da parte dei sacerdoti, dei soldati, di uno dei malfattori, oppure di coloro come il buon ladrone che hanno ricevuto la promessa della salvezza. È interessante che di fronte a questo rifiuto Gesù non dica neanche una parola; Dio quando parla proferisce sempre parole di salvezza per coloro che si aprono alla grazia: “oggi con me sarai in paradiso”. Per chi rifiuta non ci sono parole di condanna, ma semplicemente Dio rispetta la nostra libertà. Non si raggiunge la grazia ma non si potrà mai perdere la dignità della figliolanza divina. Anche se non si accoglie Dio noi rimarremo sempre suoi figli.

Nella prima lettura si narra l’investitura del re Davide dove tutte le tribù d’Israele riconoscono la sua dignità regale e il suo diritto a pascere il Popolo come un gregge. Nel Vangelo non ci sarà nessuno riconoscimento, anzi c’è il rifiuto di Gesù che non si manifesta come il re davidico, ma come un maledetto da Dio. La discesa di Gesù dalla croce avrebbe sistemato tutto, avrebbe davvero suggellato tutta la sua testimonianza, tutti si sarebbero ricreduti del madornale errore. Per ben tre volte Gesù si sente ripetere: “salva te stesso!”. Gesù non poteva salvare se stesso in modo miracoloso perché rispetta la nostra libertà, vuole che noi lo accogliamo non perché la salvezza sia qualcosa di evidente, ma perché la salvezza sia accolta nella libertà senza nessuna evidenza. Noi siamo già salvati, ma nella speranza e non ancora nella visione. Allo stesso modo Gesù non ci può salvare come noi immaginiamo e pensiamo perché siamo fatti per il Cielo, per il Paradiso. Questa solennità ci dice che la vera regalità, la vera dignità dell’uomo, e la morte di croce ce ne da testimonianza, consiste nel perdere questa vita per ritrovarla di nuovo ma decuplicata, nel spenderla al servizio di Dio e del prossimo senza riserve. La vita è stata creata perché sia donata totalmente, non perché sia trattenuta. Nel momento in cui noi doniamo la vita, la sensazione è quella della perdita, dello svuotamento, dell’impoverimento, perché tutto alla fine venga colmato solo da Dio. Chi è colmo di se stesso non può fare spazio a Dio né può tanto meno può amare. Tutti, bene o male, abbiamo sperimentato l’esperienza dell’innamoramento: non è forse un sentirsi svuotati d noi stessi perché l’altro possa entrare in noi? A tal punto che ci stupiamo di alcuni atteggiamenti che non avremmo mai potuto fare da noi stessi senza questo periodo… La terra è il trampolino di lancio per tuffarsi nell’eternità, la nostra meta non è il vivere più a lungo possibile su questa terra, ma il vivere meglio possibile per essere pronti ad accogliere il dono della salvezza definitiva.

San Paolo rivela il mistero di Cristo: Lui è il primogenito della creazione e della redenzione. Tutto è stato creato e finalizzato in Lui. Tutti i valori della vita si racchiudono in Lui e in Lui tutto si riconcilia con Dio. Ma questo avviene in un evento preciso: la morte in croce, l’effusione del sangue, in questo disegno oscuro di Dio c’è la vera libertà. Noi dobbiamo essere trasferiti, dobbiamo fare un trasloco dal potere delle tenebre al Regno del Figlio.