Dare da mangiare agli affamati

"Dacci oggi il nostro pane quotidiano" la preghiera che il Signore Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli e che i cristiani ripetono quotidianamente contiene la richiesta del pane rivolta a Dio. La richiesta del Padre Nostro riguarda il pane materiale, il cibo essenziale per vivere, simbolo di tutto ciò di cui l'uomo ha bisogno per vivere. L'orante che pronuncia questa richiesta, prega non solo per sé, ma a nome di tutti: il figlio che chiede il pane al Padre Nostro non può dimenticare il fratello che ne è sprovvisto. Qui l'indicativo di Dio diviene imperativo dell'uomo: chiedere il pane a Dio comporta entrare nella responsabilità per chi non ha pane. Dio, infatti, dona il pane all'uomo, ma anche tramite l'uomo: questi e il destinatario, ma anche il mediatore. Potremmo anche riprendere quelle parole di Gesù ai suoi discepoli di fronte alle folle stanche e affamate: "voi stessi date loro da mangiare". Dall'eucarestia parte anche il movimento "estroverso" di una Chiesa che incontra il Cristo nei poveri e cerca di sostenerli con cibo e presenza, con nutrimento e relazione, condividendo, donando e facendo giustizia. E questo ricordando quanto afferma Giacomo: "se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: - Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, - ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?". A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano anche parole e discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostenta dal cibo. Il mangiare inoltre ricorda all'uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte. Cucinare e preparare il cibo per qualcuno equivale a dire: "io voglio che tu viva", "io non voglio che tu muoia".

Come vivere questa opera di misericordia? (pag. 42 "La casa sulla roccia") Quando andiamo a fare la spesa prendiamoci la buona abitudine di riservare qualcosa della nostra spesa per i poveri: inventiamo una "borsa" per il povero per portarla alla Caritas o all'Emporio solidale.

Dare da bere agli assetati

L'acqua, fonte della vita, è una risorsa rinnovabile ma limitata, e la crisi idrica mondiale che investe molti paesi poveri, ma non lascia indenni nemmeno paesi ricchi, rischia di assumere le proporzioni di una catastrofe globale, anche se al momento "è l'emergenza più ignorata e più sottovalutata dei nostri giorni". Tra i fattori che stanno alla base di tali crisi ci sono mutamenti climatici su cui incide profondamente la responsabilità umana (aumento del riscaldamento globale, desertificazione), crescita della popolazione e degli insediamenti urbani, interventi sconsiderati dell'uomo sul territorio: inquinamento (scarichi civili, industriali, fertilizzanti e pesticidi), deforestazione, costruzione di grandi dighe che alterano la morfologia del paesaggio, il corso dei fiumi e gli equilibri della vita acquatica e terrestre, avendo anche dolorose conseguenze sociali e politiche (esodo di umani, dissidi, rancori e conflitti). In particolare l'agricoltura industriale intensiva, che richiede una quantità di acqua enormemente maggiore rispetto all'agricoltura tradizionale, è causa di impoverimento delle riserve di acqua. L'acqua sta diventando "l'oro blu", un bene prezioso che scatena interessi e corsa all'accaparramento. A questa problematica fa riferimento un breve passaggio dell'enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI: "l'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte". È necessario riconoscere che l'acqua è un diritto e non una merce, e che la disponibilità di acqua e l'accesso all'acqua potabile è un diritto essenziale dell'uomo. O viene riconosciuta come un diritto o diventerà sempre più un privilegio.

Come vivere questa opera di misericordia? Stando attenti a non sprecare le risorse dell'acqua, a non inquinare ma soprattutto aiutare quei progetti che finanziano la costruzione di pozzi e sistemi d'irrigazione. La maggioranza delle morti delle malattie è legata non tanto alla mancanza d'acqua ma alla scarsità di acqua potabile.

Vestire gli ignudi

L'atto di vestire chi è nudo implica un prendersi cura del suo corpo, un'intimità dunque, un toccare e misurare il corpo per poterlo adeguatamente vestire. Ma implica anche un prendersi cura della sua anima, in quanto il vestito protegge l'interiorità e sottolinea che l'uomo è un'interiorità che necessita di custodia e protezione. Il vestito traduce quel senso di pudore che forse è il più antico gesto che distingue l'uomo dagli animali e che non si limita all'ambito sessuale, ma ha a che fare con la totalità dell'essere umano, e soprattutto con il senso dell'identità e della soggettività. Il pudore costituisce un limite fra gli individui e sta a dimostrare l'esistenza di un luogo interno del soggetto, requisito della sua libertà, ossia del suo pieno sviluppo individuale all'interno della collettività. L'atto umano di vestire chi è nudo si fonda, per la Bibbia, sul gesto originario di Dio stesso che ricoprì la nudità umana preparando gli abiti e poi vestendo Adamo ed Eva dopo la loro trasgressione.

Come vivere questa opera di misericordia? A volte ci liberiamo di tanti indumenti che affollano i nostri armadi. Anche se sono in buono stato e li diamo alla Caritas non esprime ancora bene questa opera di misericordia perché in definitiva si tratta ancora del nostro superfluo. Chi di noi gradirebbe di ricevere in regalo un indumento usato anche se in buono stato? Il problema è quello di vedere queste persone non come poveri oggetto della nostra pietà ma come persone nella loro dignità. Anche qui perché non preoccuparci quando andiamo a comprarci un capo di abbigliamento provare a pensare di acquistarlo per una persona bisognosa? Questo non significa che non dobbiamo più dare vestiti già usati. Non sempre quello che noi indossiamo può servire per altre popolazioni in altre parti del mondo: a volte più che dare vestiti sarebbe meglio fornire alle popolazioni locali strumenti e macchine per fabbricarsi loro i vestiti secondo i loro usi e costumi.

Alloggiare i pellegrini

Oggi vi è bisogno del diffondersi e del radicarsi di una cultura dell'ospitalità in particolare nei confronti degli stranieri che premono alle porte dei nostri paesi. Ne va dell'umanità stessa dell'uomo. In effetti, "la civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico e divenuto ospite". Ma questo passaggio deve avvenire sempre e di nuovo, e ogni generazione deve essere educata a compiere questo passaggio e a non ricadere nelle mortifere logiche di contrapposizione tra "noi" e "loro". In un'epoca in cui l'insicurezza globale, mondiale, si traduce in ricerca ossessiva di sicurezza personale, difesa delle proprie case (sempre più recintate da muri invalicabili e da cancelli insormontabili, protette da telecamere a circuito chiuso, difese da polizie private) e in cui la società è opulenta e consumistica ha provocato il declino della prassi dell'ospitalità, così attestata nella Bibbia, facendone un business e appaltando a strutture alberghiere e hotel classificati in base al costo e accessibili solo a chi ne ha i mezzi economici, l'ospitalità diviene una vera sfida. Chiediamoci allora: perché dare ospitalità? Perché si è uomini, per divenire uomini, per umanizzare la propria umanità e per rispettare e onorare l'umanità dell'altro. Ogni uomo, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell'umano che in lui: noi diamo ospitalità perché sappiamo di essere ospitati a nostra volta.

Una cultura dell'ospitalità ha come base l'ascolto. Ascoltare lo straniero significa accoglierne l'appello e assumere la responsabilità di una risposta. Significa anche accettare di togliersi le lenti deformanti dei pregiudizi, delle verità prefabbricate, degli slogan, dei luoghi comuni, per avvicinarsi a lui, ascoltarlo e vedere modificato il proprio giudizio. L'ascolto implica la sospensione del giudizio, ovvero la rinuncia al pregiudizio e l'accettazione che sia l'altro a definirsi e a farsi conoscere: si assisterà così al passaggio dall'altro come "categoria" all'altro come "persona". Inoltre, per accogliere l'altro occorre umiltà e curiosità. L'umiltà di chi ritiene che l'altro possa sempre portare qualcosa alla mia umanità e la curiosità di chi si apre con simpatia alle usanze culturali dell'altro. Infine ospitare un altro implica il dialogo e la conoscenza della storia personale dell'altro.

Visitare gli infermi

Il libro di Giobbe è la storia di amici che diventano nemici mentre compiono il pietoso atto di andare a trovare il malato. E' la storia di persone che vogliono consolare e che vengono bollate come "consolatori stucchevoli", "raffazzonatori di menzogne", "medici da nulla". Gli amici di Giobbe sbagliano non semplicemente perché non comprendono che il capezzale di un malato non è il luogo adatto a una lezione di teologia, ma soprattutto perché vanno da lui pieni di certezze, di sapere e di potere. Presentandosi come salvatori s'innesca un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle accuse del malato. Nel fare il bene occorre discrezione: soprattutto visite brevi. Quando poi un malato è grave o soffre molto, e meglio che gli stia attorno soltanto chi lo può assistere: non sarebbe un'opera di misericordia caricare sul malato anche la fatica di ricevere gente, di dover sentire i loro discorsi, di dover parlare. Assistere i malati e diverso dal visitare i malati ed è molto più impegnativo.

Visitare i carcerati

Per visitare i carcerati occorre fare un lavoro su di se che comporta:

  • la percezione della tragedia della perdita della libertà da parte di un uomo;
  • la coscienza della vergogna che spesso abita colui che è in prigione;
  • il discernimento delle prigioni e a cui noi stessi ci condanniamo;
  • il riconoscimento della nostra sete di libertà e del nostro desiderio di riscatto dalla schiavitù interiori e dagli idoli;
  • il discernimento della nostra debolezza che ci porta a essere omicidi, ladri, malvagi, calunniatori, violenti nel nostro cuore, anche se non arriviamo a esternare in atti impulsi interiori;
  • lo sviluppo della capacità di compassione per la nostra fragilità.

Il carcerato non cessa di essere parte della comunità cristiana! L'autore della lettera agli ebrei scrive: "ricordatevi dei carcerati come se fosse loro compagno di carcere". Dall'antichità fino ai nostri giorni le carceri sono quel luogo infernale che a volte è divenuto luogo di manifestazione della grazia e della misericordia di Dio in maniera assolutamente sorprendente. Visitare i carcerati ha ancora oggi un primo ed elementare significato: farsi presenti a chi vive in prigione. La popolazione carceraria è formata in gran parte da poveri, emarginati, stranieri immigrati, tossico dipendenti: diversi di questi non hanno nessuno, non hanno persone che li vadano a visitare e dunque nessuno con cui parlare e da cui farsi ascoltare. La perdita della libertà, la solitudine affettiva, l'assenza di vita sociale, la prospettiva di rimanere a lungo in carcere, spesso inducono atteggiamenti di perdita di interesse per la vita. Stretto tra disperazione e rivolta, il carcerato ha bisogno di un volto che lo ascolti e gli parli, gli faccia sapere con sua presenza e la sua accoglienza che è più grande degli atti chi ha commesso e che a essi non è riducibile. Il contatto epistolare e particolarmente utile e importante. Per una comunità cristiana sarebbe importante conoscere e sapere se ci sono dei parrocchiani in prigione e provare ad instaurare contatti con la famiglia di origine.

Seppellire i morti

La sepoltura dei morti dice del livello di umanizzazione e del grado di civiltà di una società umana: "si giudica un popolo dal modo in cui seppellisce i propri morti" (Pericle). Tutti noi proviamo errore di fronte alle notizie di profanazione di tombe, o di fronte alle immagini che mostrano oltraggi e violenze contro i corpi morti di nemici in guerra. Percepiamo una sacralità violata, sentiamo come scempio e disumano quell'agire violento. E sentiamo che se non c'è rispetto e attenzione per i morti non vi può essere rispetto e cura per i viventi, per gli uomini. Come esprimere oggi la pietà cristiana per i morti? Anzitutto accompagnando le salme dei propri parenti, degli amici, dei conoscenti, dei compagni di lavoro, dei vicini di casa al funerale. Ci sono due maniere di partecipare a un funerale: per convenienza sociale o per pietà cristiana. Nel primo caso è solo una presenza, che, quando è educata, è rispettosa e silenziosa. Nel secondo caso è una partecipazione attiva alla preghiera, alla liturgia, all'eucarestia. Evidentemente solo così la partecipazione al funerale diventa un'opera di misericordia. C'è un secondo modo per esprimere la pietà per i morti: i fiori e le opere buone. un terzo modo: illuminare il funerale e la sepoltura della luce della resurrezione. Anche se oggi non e più possibile seppellire materialmente i morti, come segno di carità, la partecipazione al funerale vissuta nella preghiera, nella condivisione con i poveri, nella fede rinnovata della risurrezione, diventa un modo diverso, ma luminoso e fecondo, di vivere nel tempo attuale la settima opera di misericordia corporale.