La prima lettura è il racconto del rinnovamento dell’alleanza distrutta dalla disobbedienza del Popolo con l’episodio del vitello d’oro. Il Popolo non tardò a rappresentarsi Dio sotto le sembianze di un toro, o meglio di un giovenco. Infatti non si trattò subito di idolatria, ma di rappresentarsi il Dio che li aveva fatti uscire dall’Egitto con forza e potenza. Se davvero aveva rivelato il suo nome a Mosè nel roveto ardente: “Io sono colui che sono” cioè colui che è presente, il Dio vicino, non poteva rimanere nascosto, non essere reso “visibile”. Il peccato del popolo fu di “far scendere” obbligatoriamente Dio sulla terra per soddisfare i propri bisogni, le proprie necessità tanto che il culto a Dio divenne un far festa mangiando, bevendo e ballando: è qui che s’insinua l’idolatria. Essa è la rinuncia a lasciarsi salvare da Dio per odorarlo come noi vogliamo e desideriamo. Dio diventa una rassicurazione dei nostri bisogni egoistici: ognuno ballava per sé. La liturgia invece ci da un ordine, ci dice come dobbiamo adorare il nostro Dio, dove ognuno è capace a rispettare e aspettare il fratello o la sorella che ha accanto e tutti attendiamo la salvezza che viene da Oriente. Rinnovando l’alleanza distrutta dalla disobbedienza del peccato, Dio rivela un altro nome, quello decisivo: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà”. Il nome proprio di Dio è misericordia perché sa che l’umanità fa fatica a lasciarsi salvare. Giovanni ci dice che non è l’uomo a far scendere Dio sulla terra, ma è Lui che l’ha mandato a noi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Ancora una volta il Vangelo ci conferma che il nome proprio di Dio è amore, misericordia e vuole che nessun uomo o donna si perda. Sì, per l’uomo è facile perdersi, Dio la sa bene: è per questo motivo che ci ha mandato come ultima possibilità, la prova più estrema, quella più decisiva, il suo stesso figlio unigenito. Dio non ci ha chiesto di fare delle opere per lui, di dimostrare chissà quali prove d’amore eroiche, ma di riconoscere questo amore che è a portata di mano: questo significa credere in lui. Com’è facile perdersi per l’uomo, altrettanto facile è ricevere la sua salvezza. L’esperienza del Popolo d’Israele è un avvertimento, un ammonimento: noi non siamo diversi dai nostri padri. Anche noi ricadiamo negli stessi errori del popolo eletto. Solamente che noi non ci accorgiamo fin tanto che qualcuno non sia disposto a dirci come stanno le cose. Siamo anche noi un Popolo dalla dura cervice perché sappiamo molto bene com’è possibile salvarsi, ma non lo facciamo perché pretendiamo noi di essere gli artefici della nostra salvezza, della felice riuscita della nostra vita. La salvezza non è qualcosa di cui ne sentiamo la mancanza se viviamo una vita tutto sommato buona, onesta, ma solo nel momento in cui noi accogliamo e capiamo questo amore, cioè crediamo, allora potremo sperimentare la necessità di essere salvati. Che cosa c’era di male nel ballare, mangiare, divertirsi del Popolo? Il problema non è quello di ballare, mangiare e divertirsi, ma di dimenticarsi di adorare il vero Dio che ha manifestato al mondo intero il suo amore. Abbiamo di fronte a noi questa orribile immagine: un Dio che pretende e prende. Invece è un Dio che non prende ma dona solamente se stesso, un Dio che esce verso l’uomo. Se accetto, perdo me stesso, ma in questa sconfitta entro nel circuito d’amore della SS. Trinità.