Un uomo ricco chiede la resa dei conti al suo amministratore accusato di sperperare i suoi beni. Inizia così la nostra parabola! È semplicemente la constatazione del fallimento di una vita, il fatto di rendere conto del nostro vissuto. Potremmo domandarci: la vita è alla fine una resa dei conti con Dio? E se poi falliamo, perché questa è la nostra più grande paura, che ne sarà di noi? Potremmo ricollegarci a quello che abbiamo detto domenica scorsa a riguardo della giustizia di Dio. Egli non è il giudice impietoso che punisce la colpa, ma non è neanche colui che perdona svendendo il suo amore. Ci sono quelle parole del salmo rassicuranti: “Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere? Ma con te è il perdono, perciò avremo il tuo timore”. Il timore, che non è paura di Dio, ma riconoscere la sua sovranità nella nostra vita, è conseguenza dell’amore di Dio. Noi sicuramente sperperiamo la nostra vita, non saremo mai in grado di vivere in pienezza la nostra vita. L’accusa è quello di “sperperare” qualcosa che riteniamo nostro, ma che in realtà appartiene a qualcun altro. Quante volte sperperiamo la nostra vita in tante cose non necessarie e inutili, sperperiamo il nostro tempo, le nostre relazioni, sperperiamo la nostra famiglia non dando quella cura e attenzione? Sperperiamo anche non vivendo la nostra vocazione battesimale all’interno della nostra comunità, fruitori di “pillole spirituali” senza nutrirci del pane consistente della Parola; non assumendoci le nostre responsabilità di missionari, educatori. È sperpero abusare dei bisognosi e di chi non si prende cura delle vulnerabilità dei poveri, delle famiglie ferite e delle fragilità psichiche, secondo il profeta Amos. La vita non è resa dei conti, ma Dio prenderà atto di quello che noi vogliamo farne della nostra vita. La vita è un rendere gloria a Dio con l’amore che avremo profuso su questo mondo. La vita è farsi degli amici su questa terra. Nulla di più facile; tutti ne abbiamo, ma c’è amico e amico. L’amicizia che ci propone Gesù non è quella naturale, spontanea, simpatica; ma è quella che va alla ricerca dell’altro, che paga di persona, che si sacrifica per l’altro, che condona i debiti altrui. La possibilità di fallire nella nostra vita esiste e l’inferno, quale condizione della persona che rifiuta totalmente e in modo definitivo Dio, ce lo testimonia, ma nulla è irreversibile su questa terra, tanto che l’amministratore ha ancora la possibilità fino all’ultimo di cambiare la sua sorte ormai segnata. Egli ha saputo garantirsi il futuro nel poco tempo rimasto a sua disposizione. Il rientrare in se stesso, come per il prodigo, è la chiave di lettura e la svolta della sua vita. Prende in considerazione i suoi limiti umani, si ritiene incapace di zappare e di chiedere l’elemosina, ma sa che cosa fare in base alle sue forze e alle sue possibilità. In che cosa “sperpero” la mia vita e quali decisioni potrei prendere di fronte a questo sperpero? Questo discorso vale anche a livello comunitario, parrocchiale: qual è lo sperpero della nostra comunità? Che cosa deve tralasciare per poter annunciare il vangelo in chiave missionaria? Non c’è solo una conversione personale ma anche pastorale. Luca ci parla di ricchezza disonesta: “Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, che vi affiderà quella vera?”. Sembra ascoltare le parole dell’apocalisse che rimprovera la comunità di Smirne: “conosco la tua tribolazione e la tua povertà, eppure sei ricco”. È la tentazione di pensare che già si sta facendo tanto per la parrocchia, già si fa fatica a mantenere l’ordinario, quindi non andiamo oltre, bisogna risparmiarci, senza aprire nuove vie, nuove strade. In fin dei conti “si è sempre fatto così”. Le nostre comunità hanno una ricchezza disonesta quando si considerano dei luoghi di privilegio piuttosto che luoghi d’irradiazione del bene e del Vangelo.


Sia lodato Gesù Cristo