La prima lettura è il brano molto conosciuto del vitello d’oro e sicuramente non può non colpirci la determinazione di Dio di fronte all’immagine che si erano fatti di un idolo: “ho osservato questo Popolo: ecco, è un Popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”. Sembra questo testo rappresentarci un Dio mutevole, non affidabile, un Dio che come gli uomini si stanca perché anche lui “perde la pazienza”. E ancora: può Dio pentirsi del male che voleva minacciare? In realtà il testo vuole affermare proprio il contrario perché questo tipo di ragionamento rappresenta una nostra proiezione su Dio: questo semmai potrebbe rappresentare il nostro pensiero; il sospetto, cioè che Dio agisca come noi uomini. Mosè non deve convincere Dio a desistere dalla sua ira; Dio non ha bisogno di pentirsi, ma siamo noi che dobbiamo convincerci che Dio non può venir meno alla sua promessa, alla parola data ad Abramo e alla sua discendenza. Non è Dio che deve ricordarsi, siamo noi che dobbiamo ricordarci del suo amore e della sua fedeltà. Il termine meth (fedeltà) significa proprio “stare saldo”. Il testo vuole sostanzialmente rispondere a questa domanda: “Dio è il Dio della giustizia o della misericordia?”; “qual è la giustizia di Dio?”. Il profeta Osea dice: “perché son Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”. Il Dio dell’antico testamento, che non è un altro rispetto alle parabole della misericordia del nuovo testamento, non è il Dio dell’ira e della giustizia, ma il Dio della misericordia. La sovranità di Dio consiste nel rimettere e perdonare, che non si richiama alle esigenze della pura giustizia e che può quindi includere una giusta punizione, ma concede un nuovo inizio. Dio nella sua misericordia si rivela come il Totalmente Altro che non può essere ridotto secondo i nostri schemi, ma anche come il Totalmente Vicino: ecco le parabole della misericordia! Chi è il più vicino di Colui che va alla ricerca della pecora perduta; di Colui che ritrova la dramma perduta; di Colui che va incontro ai due figli? Dio Padre che ci ha rivelato il Signore Gesù. Anche nell’incipit delle parabole c’è la presunzione di far rientrare Dio nei nostri schemi, manipolare Dio con le nostre mani: “I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Il “mormorare” ci rimanda al peccato del popolo nel deserto: “Dio è in mezzo a noi, sì o no?”; indirettamente questi farisei e scribi professavano l’immagine di un Dio che non può stare dalla parte dei peccatori. È l’atteggiamento del figlio maggiore che rifiuta di entrare nella casa paterna. Sia il figlio minore sia il maggiore si erano costruiti un immagine distorta del Padre. Il figlio minore di un Padre che deve fare giustizia: “non sono più degno di chiamarmi tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati” e il figlio maggiore l’immagine di un Padre esigente che si attende qualcosa da lui perché possa ricevere un premio. Dio Padre è colui che vuole entrare in relazione con noi, che non ci chiede nulla in cambio se non riconoscere il suo amore paterno. Molte volte non siamo anche noi che ci facciamo un’immagine di “metallo fuso” di Dio che comprende questi due estremi? Da una parte un Dio che ci chiede conto dei nostri errori e dell’altra un Dio non ci da nulla in contraccambio.

Chi è il Dio della Storia di ieri e di oggi che Gesù ci vuole narrare? È colui che dona e accoglie gratuitamente, la sua misericordia è per sempre, il perdono è una garanzia. In Dio non c’è separazione tra giustizia e misericordia, ma in Dio giustizia e misericordia coincidono. Egli sta sopra la logica ferrea del castigo e della colpa. Non è un giudice arbitrario che emana sentenze secondo una legge a lui antecedente, e meno ancora è un funzionario che esegue gli ordini di un altro.


Sia lodato Gesù Cristo