Secondo l’uso del tempo i rabbì, cioè i maestri della Legge, dovevano occuparsi di dirimere le questioni riguardanti le eredità. Gesù viene interpellato appunto in questa veste di autorità religiosa. In Israele c’erano regole precise nella suddivisione dei beni paterni, ma molto spesso non bastavano. Gesù pone una domanda a se stesso che spiazza quell’uomo. Certo Gesù è davvero giudice e mediatore ma non delle cose di questo mondo che sono passeggere, caduche, che non durano; Gesù è giudice e mediatore ma di beni eterni, è il tesoriere dei beni che appartengono a Dio. Il realismo del Qoelet è disarmante: tutto è vanità, cioè vapore che svanisce in un istante. “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica?” Sicuramente questa pagina biblica deve essere illuminata con la rivelazione portata da Gesù perché Dio facendosi uomo ha santificato tutta la vita degli uomini, anche la loro fatica e il sudore. Anche Gesù ha voluto lavorare come qualsiasi altro uomo dimostrando che è luogo di salvezza. Il problema è quando vogliamo assolutizzare le realtà di questo mondo e siccome siamo creature che si trascendono, pensiamo di trovare la realizzazione piena solo in questo mondo: da questo punto di vista il Qoelet ha ragione. Il pericolo non è tanto quello di possedere i beni, quanto piuttosto l’avidità e la cupidigia; il pericolo non è tanto la fatica umana quanto piuttosto le preoccupazioni e gli affanni della vita che ci tolgono la pace. Quella pace tolta a quell’uomo che ha deciso nel suo cuore di demolire i suoi magazzini per costruirne di più grandi: ecco l’ansia e la preoccupazione dell’accumulo di beni. Non ha avuto il tempo neanche di godersi l’abbondanza del raccolto; non ha pensato che quel raccolto potesse essere utile per sé ma anche per altri. I beni non diventano più un mezzo, ma il fine. L’accumulo di beni e l’avidità (compresi anche i soldi) ci danno la sensazione di prolungare la nostra vita, di tenere in mano il nostro futuro, anestetizzano la nostra coscienza, alterano la realtà che ci circonda: anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede. Molte volte ci giustifichiamo dicendo che in fin dei conti lo facciamo per gli altri e non per noi stessi: è un modo per far apparire necessario ciò che invece non lo è. Alla fine la nostra vita dipende da Dio! Egli ci invita a valutare la vita dalla fine e non dall’inizio della nostra esistenza. C’invita a smettere di interrogare la vita, ma di lasciarci interrogare dalla vita. Nell’elenco che san Paolo fa delle passioni mette come ultimo la cupidigia che la definisce idolatria. Quando dimentichiamo Dio s’impadronisce di noi la cupidigia che diventa il nuovo dio a cui siamo disposti a sacrificare tutto. Nell’uomo infatti non ci sono mezze misure o siamo tutto di Dio o siamo tutto dell’idolo: “non potete servire Dio e la ricchezza”.

Perché accumuliamo beni? Perché abbiamo paura di mancare del necessario; perché in fin dei conti riteniamo che Dio non sia capace a soddisfare tutti i nostri desideri: non crediamo nella sua Provvidenza; perché abbiamo paura della sofferenza che possa abbattersi improvvisamente nella nostra vita e attorno a noi. Il modo sicuro per perdere quella pace, che quell’uomo della parabola sognava, è cercare di assicurarsi la propria vita, di acquistare o conservare un bene qualsiasi con l’aiuto della sola industria umana. In quali tormenti ed inquietudini si mette la persona che cerca di salvarsi in questo modo. Per conservare la pace in mezzo ai rischi dell’esistenza non abbiamo che un’unica soluzione: appoggiarci a Dio solo, con una totale fiducia in Lui, un totale abbandono a Lui. Non ci può essere abbandono se non è totale.


Sia lodato Gesù Cristo