Gli atti degli Apostoli ci presenta la comunità cristiana che cresce per mezzo della fede nel Signore risorto, grazie anche alla testimonianza degli apostoli che vengono tenuti in grande considerazione e rispetto. Il punto determinante di questo racconto non sono i prodigi e i segni che essi compivano nei riguardi del popolo, ma il segno più grande è quello dello stare insieme: “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Che cosa allora determina l’incontro con il Risorto, con il Signore Gesù? È forse lo star bene con se stessi? Essere guariti? È la gioia? È l’esultanza? No! Tutte queste realtà sono delle conseguenze di quell’unica realtà che è la comunione, la relazione con i fratelli, la perseveranza di ritrovarsi insieme: “erano soliti stare…”. Ecco la chiave di lettura con la quale possiamo leggere le altre letture che abbiamo ascoltato. In questo brano conosciutissimo dell’incontro di Gesù con Tommaso molte volte rischiamo di farne una lettura parziale. Puntiamo tutta la nostra attenzione su quell’incontro tra Gesù e il solo Tommaso che compie la sua più alta professione di fede: “mio Signore e mio Dio”. Un incontro che gli ha permesso di passare dal dubbio alla fede matura. Non dobbiamo però dimenticare che nella prima apparizione Tommaso non era con gli altri discepoli. Il Signore quando si lascia trovare, incontrare? Solo all’interno della comunità dei discepoli. Da soli non si va da nessuna parte, non lo si può incontrare! Oggi vorremmo vivere un cristianesimo sciolto da vincoli, da legami. Ciò che ci rende vivi e ci fa dire di vivere da risorti è la comunione con i fratelli. È un’illusione, è un abbaglio pensare di vivere la propria fede fuori dalla comunità di appartenenza: nessuno si salva da solo, ma se mi salvo, mi salvo con altri fratelli e sorelle. Da soli non si va da nessuna parte e non si approda a nulla proprio come Tommaso che deve rientrare nel cenacolo con gli altri. Facciamo esperienza del Risorto solo se ho accanto a me un altro fratello e sorella. Non solo il Risorto si rende presente nella comunità, ma il primo giorno della settimana, cioè la domenica. Gesù si lascia incontrare sempre nell’ottavo giorno perché la salvezza non è mai qualcosa che l’uomo prende da solo e se la mette in tasca, ma è un dono da saper accogliere rispettando i tempi e i modi che Dio ci dà e non in altri. Il problema è poi anche quello di sentire il bisogno di ricevere questa salvezza attraverso la remissione dei peccati. Se non ne sento il bisogno per me la domenica diventa un giorno come qualsiasi altro come già di fatto avviene per molti battezzati: non è necessaria la domenica; è una possibilità ma non di più perché sono io che detto i miei tempi e quindi non ci sarà per me un tempo in cui io possa vivere la mia gratuità per il Signore e per i fratelli. Giovanni è rapito in estasi proprio nel “giorno del Signore”: fin dal principio appare fondamentale l’importanza della domenica, quindi della memoria di Gesù. Perdere il senso della domenica, assimilarlo agli altri giorni, porta fatalmente la comunità cristiana a dimenticarsi di Cristo, a lasciar svanire la memoria di lui nell’eucarestia, a rendere sbiadita l’immagine e l’esperienza della Chiesa. Gesù è il “Primo e l’Ultimo, e il Vivente”, cioè è il Signore del tempo e della storia. È lui a conferirle significato e riuscita. Dobbiamo allora affidarci alla vittoria del Signore e sentire dentro di noi un’incrollabile fiducia, capace di rimuovere ogni paura: “Non temere!”.