“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. Abramo si trova in una situazione di crisi, di smarrimento: la promessa di un figlio e della terra promessa sembra non realizzarsi. Quel “sogno” di Abramo che lo aveva portato ad uscire dalla sua terra, da Ur dei Caldei, sembra essersi vanificato. Dio che cosa fa? Non gli dice che ne ha già passate tante e che è arrivato il momento del figlio e della terra promessa, ha già sopportato abbastanza, ma lo invita ad alzare il suo sguardo e ad osservare le stelle. Sembra qualcosa di poco conto, ma in realtà non lo è. Dio continua a confermare la sua promessa nonostante la realtà dica il contrario. Abramo non era più capace ad osservare le stelle, il cielo, ma era ripiegato su se stesso, non era più capace a desiderare quello che Dio voleva per lui. È interessante che la parola desiderio derivi proprio dal latino de-sidus, cioè assenza di stelle. Abramo non riusciva a scorgere il suo futuro. Dio gli conferma solennemente la sua alleanza attraverso quel rito sacrificale dove passa solo Dio attraverso l’immagine del fuoco. Non solo Abramo vede precluso il suo futuro ma incomincia a dubitare di Dio, che non sia capace a mantenere le sue promesse, che lo abbia abbandonato: “mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono”. Alla fine il figlio lo avrà, ma la cosa più impensabile è che Abramo contemplerà la terra promessa solo da lontano ma non ci entrerà mai perché morirà prima. Dio ha per caso fallito? No perché la sua promessa andava oltre la vita stessa di Abramo; il pericolo di Abramo era quello che una volta entrato in possesso del dono, si sarebbe dimenticato del donatore. Dio non realizza tutte le sue promesse su questa terra, ma le tiene sempre aperte perché noi possiamo desiderare molto di più, andare oltre i nostri limiti umani e le nostre precomprensioni. Non è forse l’esperienza dei discepoli sul monte Tabor? Gesù dopo il primo l’annuncio della sua passione promette ad alcuni dei suoi discepoli che non sarebbero morti prima di vedere il Regno di Dio. La trasfigurazione rappresenta proprio questa promessa di Gesù, otto giorni dopo – precisa Luca -, che rivela nella sua persona la presenza del Regno di Dio. Gesù nella trasfigurazione rappresenta la promessa di Dio che viene mantenuta, come per Abramo nel rito del sacrificio. Gesù li invita a non vedere il momento presente come immutabile - per quanto duro e difficile perché c’è la passione, la morte - ma alla luce della metamorfosi, della resurrezione, della glorificazione. La nostra vita non è tutta qui e non coincide con le nostre esperienze terrene, ma sia apre ad un cambiamento, ad una trasformazione che non dipende da noi ma da Dio. È questo il mistero pasquale che noi ci stiamo preparando a vivere!

Quel momento grande e meraviglioso viene interpretato da Pietro come già definitivo. È la tentazione di raggiungere la gloria senza passare dalla passione, di vedere realizzate tutte le promesse di Dio come per Abramo. Anche noi vorremmo fermare quell’attimo, catturare ed eternizzare la gloria di quel momento raggiante, ma non è possibile. La nube che rappresenta l’esperienza fatta della misericordia di Dio che si abbassa su di loro è in vista del difficile cammino che li attende. Piantare le tende sul monte significherebbe vanificare il dono ricevuto. I discepoli sono chiamati quindi a seguire il loro maestro nel suo esodo. Luca ci dice che l’ascolto del suo Figlio e la preghiera sono queste le anticipazioni di gloria che ci permettono di affrontare il nostro esodo, il nostro cammino quaresimale della vita.


Sia lodato Gesù Cristo